Con loro. Dentro l'arte.

Con loro. Dentro l'arte.

I minori dell'Istituto Ferretti di Firenze alle prese con una mostra particolare

Fare arte non serve a niente, è vero.
A patto che si aggiungano a questa sentenza apodittica altre due paroline: di pratico.
Ora la frase è completa e corretta: fare arte non serve a niente di pratico. 
Serve a tutto il resto.

Esattamente un anno fa sono stato chiamato al telefono da Valentina Gensini, direttrice del MAD (Murate Art District), vivace ente culturale situato alle Murate, luogo storico fiorentino, che ha accolto nel corso degli anni un convento ed un carcere. È stato completamente ristrutturato da qualche anno, ed è, adesso, un polo culturale piacevolissimo alla visione e alla fruizione.


Valentina, con cui intratteniamo contatti da un po’ di tempo, mi dice che un’artista, Ilaria Turba, sta preparando una mostra di “arte partecipata”, in cui vuole includere diverse realtà del quartiere di Sant’Ambrogio. E sarebbe interessata a inserire all’interno del progetto, anche il Centro Diurno Ferretti.
Mi brillano gli occhi e anche la testa.


Essendosi i miei ormai “antichi” studi universitari orientati in Filosofia e, in particolar modo, in Estetica, non posso che provare sentimenti di giubilo di fronte ad una cotanta prospettiva.


Vado alle Murate e Ilaria mi accoglie in due “celle” (lo erano realmente nel passato!) del settore espositivo adibite ad ufficio. Le spiego come funziona il nostro centro, quali sono i ragazzi che frequentano, che tipo di attività svolgiamo.


Ilaria mi fa poi un’intervista sul “desiderio”, di cui ho provato a dare una mia lettura, spiegandomi che la mostra che intendeva allestire a Firenze, si basava su un’esperienza svolta a nord di Marsiglia, in cui gli abitanti del quartiere avevano prima espresso i loro desideri per poi “panificarli” sotto la sua guida, attraverso la lavorazione e la cottura di “pani rituali”, appunto.


Nell’idea dell’artista alcune persone, inserite nella realtà territoriale del quartiere di Sant’Ambrogio, fra cui i ragazzi del nostro centro, avrebbero dovuto collegare a questi pani un loro desiderio e poi, di conseguenza, un loro oggetto legato alla storia personale. Non quindi una cosa qualunque, ma come ama dire Ilaria, un “oggetto di affezione”.

La seconda fase del nostro “fare arte” è coincisa con la visita dell’artista ai ragazzi e alle ragazze del nostro centro. Ilaria ha posto sul tavolo della nostra aula i pani rituali di Marsiglia cercando di far loro enucleare i propri desideri. 


Io e la mia collega mantenevano, intanto, un silenzio assoluto.


Arrivati alla fase della scelta di un oggetto, la decisione è caduta su un disegno elaborato a conclusione di una nostra attività di poche settimane prima, che aveva come scopo proprio la “verbalizzazione visiva” dei valori e dei desideri dei ragazzi.


Il disegno è stato ribattezzato l’ “isola dei desideri” e rappresentava simbolicamente un “continente ideale” dove i nostri minori avrebbero vissuto volentieri in gruppo.


Ilaria ha preso il disegno e ha comunicato loro che tale opera sarebbe stata esposta, insieme alle nostre interviste, all’interno della mostra allestita alle Murate di lì a qualche giorno. Ho guardato gli occhi dei ragazzi: erano sorpresi, stupiti, l’atteggiamento corporeo mostrava insieme titubanza, diffidenza e voglia di partecipare. 


Arrivato il giorno della mostra, ci siamo recati alla spicciolata verso l’esposizione. Entrati al piano superiore ci siamo trovati di fronte ad un’enorme sala con al centro un lungo tavolo e sopra i pani marsigliesi, coperti da cloches trasparenti. Ai lati del tavolo c’erano gli oggetti. Su un ripiano illuminato da una luce blu, c’era anche la nostra isola.


I ragazzi erano sorpresi ed emozionati dalla mostra ed erano contenti di vedere, fra i “fasti” di un’esposizione internazionale, un “loro” piccolo lavoro pensato e realizzato durante le giornate quotidiane al centro, a volte divertenti, a volte stancanti, a volte noiose, sicuramente mai poco significative. 
Sapevano, in quel momento, chi più consapevolmente, chi meno di “aver fatto arte”; sapevano chi più consapevolmente, chi meno, di essere stati “creativi”. 


Nell’ex ufficio di Ilaria hanno inoltre trovato i testi, esposti in un piccolo volume, delle loro interviste.
La cosa più divertente ed estemporanea di quella splendida esperienza è stata la domanda di uno dei ragazzi, che visti tutti quei pani sul tavolo, ha chiesto: “Ma ora si mangia”?Io e la mia collega ci siamo guardati mantenendo a fatica un certo aplomb, mentre lei con tutta la   sensibilità possibile rispondeva: “No, queste sono opere d’arte, non sono da mangiare”; a dimostrazione del fatto che la vita e l’arte sono composte di infinite parti, comprese quelle profondamente ironiche.


L’altra sera siamo tornati alle Murate, dove c’era la presentazione del libro dedicato alla mostra: i ragazzi sono venuti, tutti cresciuti, tutti più grandi; si sono confrontati con una sala piena di studenti universitari, di cittadini e di curiosi. Hanno ascoltato, fra un messaggio Wathsapp e una storia Instagram, una conferenza su un tipo di arte che entra nei territori e nelle comunità rendendoli partecipi di una possibilità creativa. Per loro che arrivano da situazioni complesse e difficili, questo tipo di attività sono come acqua fresca; perché fare arte non serve a niente di pratico.
Serve a tutto il resto.

Maurizio Bartolini, educatore della Diaconia Valdese Fiorentina